Page 15 - QUESTA SERA SI RECITA A SOGGETTO - PICCOLO TEATRO MILANO - STAGIONE 2015/2016
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appunto al regista e agli attori: a coloro, in sostanza, che
fanno lo spettacolo; libertà che quindi ricade anche sul
momento dell’adattamento drammaturgico.
È un’operazione che del resto va liscia senza ostacoli né
forzature: si tratta di un testo costruito intenzionalmente e
anche con una certa astuzia contro qualsiasi nobiltà
autoriale, col divertito masochismo di chi dell’autorialità
conosce tutte le trappole, i sotterfugi, le strategie. Se c’è
infatti una nevrosi che attraversa tutto il dramma è l’ odio
per il testo. Il nemico di Hinkfuss non è tanto l’Autore (che
viene considerato tutto sommato un male necessario),
quanto la Parola: il linguaggio verbale come espressione
insostituibile e definitiva. «Così a vento io non vado» si
lamenta la Prima Attrice, facendo scattare l’accusa
collettiva: «Si sarà bell’e scritte e messe a memoria le
parole da dire». E il Primo Attore: «Io dirò comunque
quello che debbo dire». E in quel «debbo» risuona la
logica che domina questa drammaturgia: ogni criterio è
ammesso, purché non sia prestabilito – purché si svolga
nel qui e ora. L’unica parola che Hinkfuss ammette in
scena è quella capace di aprire uno spazio superiore a
quello che delimita. Per diventare teatro, perciò, la novella
– la «letteratura» – andrà aperta, sviscerata, e poi fatta
reagire in uno spazio più ampio e spericolato, più storico.
Questo testo è anche un’operazione di macelleria, ogni
violenza è un delirio egotico, la parola che torna più
spesso nel monologo iniziale di Hinkfuss, ossessiva come
un tamburo, è «io», un io sempre avversativo, sempre
polemico e in opposizione: «In teatro l’opera dello scrittore
non c’è più. E che c’è allora? La creazione scenica che
n’avrò fatta io…». Così, mentre Pirandello mette in scena
in chiave negativa una figura di regista che si arroga ogni
libertà sul testo, nei fatti, con un’iperbole non sappiamo
quanto consapevole, offre ai futuri registi e attori un
materiale scenico aperto alle interpretazioni più disparate.
Drammaturgicamente parlando, quello di Hinkfuss è un
massacro: prima perpetrato e poi subìto. La sua
preminenza è ribaltata, l’ordine delle cose (ancora una
volta, teatralmente) capovolto: ad ogni cosa risponde
presto o tardi un contrappasso. Si agita in questo testo
una specie di furia bipolare, che è l’altra sua grande
specificità drammaturgica: un’agitazione quasi sclerotica,
cui corrisponde, per dirla ancora con Giovanni Macchia,
«amore non corrisposto, ansia, liberazione, pazzia, istinto,
e un oscuro desiderio di felicità, sensuale, meridionale,
nella capacità di osare, di far clamore, di far chiasso».
È una strategia di scandalosa, quasi terroristica oltranza
drammaturgica: enfatizzare fino alla radice tutti i “vizi
d’autore” – il patetico, il cerebrale, il concettoso, il
paradossale – per renderli insostenibili e assurdi – quindi
ridicoli. Qualsiasi oltranza, sembra dimostrare Pirandello
come in un teorema, è comica. E lo strumento di questa
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fanno lo spettacolo; libertà che quindi ricade anche sul
momento dell’adattamento drammaturgico.
È un’operazione che del resto va liscia senza ostacoli né
forzature: si tratta di un testo costruito intenzionalmente e
anche con una certa astuzia contro qualsiasi nobiltà
autoriale, col divertito masochismo di chi dell’autorialità
conosce tutte le trappole, i sotterfugi, le strategie. Se c’è
infatti una nevrosi che attraversa tutto il dramma è l’ odio
per il testo. Il nemico di Hinkfuss non è tanto l’Autore (che
viene considerato tutto sommato un male necessario),
quanto la Parola: il linguaggio verbale come espressione
insostituibile e definitiva. «Così a vento io non vado» si
lamenta la Prima Attrice, facendo scattare l’accusa
collettiva: «Si sarà bell’e scritte e messe a memoria le
parole da dire». E il Primo Attore: «Io dirò comunque
quello che debbo dire». E in quel «debbo» risuona la
logica che domina questa drammaturgia: ogni criterio è
ammesso, purché non sia prestabilito – purché si svolga
nel qui e ora. L’unica parola che Hinkfuss ammette in
scena è quella capace di aprire uno spazio superiore a
quello che delimita. Per diventare teatro, perciò, la novella
– la «letteratura» – andrà aperta, sviscerata, e poi fatta
reagire in uno spazio più ampio e spericolato, più storico.
Questo testo è anche un’operazione di macelleria, ogni
violenza è un delirio egotico, la parola che torna più
spesso nel monologo iniziale di Hinkfuss, ossessiva come
un tamburo, è «io», un io sempre avversativo, sempre
polemico e in opposizione: «In teatro l’opera dello scrittore
non c’è più. E che c’è allora? La creazione scenica che
n’avrò fatta io…». Così, mentre Pirandello mette in scena
in chiave negativa una figura di regista che si arroga ogni
libertà sul testo, nei fatti, con un’iperbole non sappiamo
quanto consapevole, offre ai futuri registi e attori un
materiale scenico aperto alle interpretazioni più disparate.
Drammaturgicamente parlando, quello di Hinkfuss è un
massacro: prima perpetrato e poi subìto. La sua
preminenza è ribaltata, l’ordine delle cose (ancora una
volta, teatralmente) capovolto: ad ogni cosa risponde
presto o tardi un contrappasso. Si agita in questo testo
una specie di furia bipolare, che è l’altra sua grande
specificità drammaturgica: un’agitazione quasi sclerotica,
cui corrisponde, per dirla ancora con Giovanni Macchia,
«amore non corrisposto, ansia, liberazione, pazzia, istinto,
e un oscuro desiderio di felicità, sensuale, meridionale,
nella capacità di osare, di far clamore, di far chiasso».
È una strategia di scandalosa, quasi terroristica oltranza
drammaturgica: enfatizzare fino alla radice tutti i “vizi
d’autore” – il patetico, il cerebrale, il concettoso, il
paradossale – per renderli insostenibili e assurdi – quindi
ridicoli. Qualsiasi oltranza, sembra dimostrare Pirandello
come in un teorema, è comica. E lo strumento di questa
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