Page 20 - QUESTA SERA SI RECITA A SOGGETTO - PICCOLO TEATRO MILANO - STAGIONE 2015/2016
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GIOVANNI MACCHIA
vedere, denunziare, toccare, perché chiusi nella densità
buia dell’essere che ha di fronte – a mostrare dinanzi al
giudice assente, ma che pur s’annida nella sua anima
come sdoppiata, la colpevolezza della vittima, e sente che
anch’egli ha bisogno di essere giudicato. Deve scaricarsi
dall’accusa di cui lo ricopre la madre: di essere un mostro.
Egli deve gridare la sua passione, quella che gli fa
commettere il delitto. I mostri non soffrono, godono se
mai del martirio che infliggono agli altri. Egli impazzisce nel
suo stesso ufficio biblico, primordiale, di difensore
dell’onore, il grande, immacolato, intatto onore che vive
religiosamente sopra di noi come un’irraggiungibile
reliquia. Egli giudica per essere giudicato e per essere
assolto.
In questa sua requisitoria non sono più i fatti che contano,
ormai soppressi dalla rigida claustrazione della
condannata, ma ciò che i fatti, nel ricordo delle colpe
commesse, dei piaceri che non si cancellano e che
continuano a vivere appiattati sotto la coscienza, hanno
depositato e ramificato in lei come una vegetazione
abnorme che arriva ancora a stordire i sensi. Caduti i fatti,
non esistono che le sensazioni, che è impossibile
riconoscere ed estirpare. È ciò che non si riesce a
chiudere in una prigione e che rende, come in un
procedimento di magia, le mura sottili come fogli di carta.
Sono i pensieri, i sogni, le fantasie, gli inafferrabili segni del
tradimento, e che in quanto inafferrabili s’ingigantiscono
nell’immaginazione del torturatore. L’impiego del tempo,
di quel tempo del tutto inerte, si anima come un problema
insolubile che pure deve esistere, quel tempo occupato
nella solitudine infinita, nelle ore che non passano e che
pure devono essere riempite. (…) E poiché l’accusata
denuncia di aver dormito per abolire il tempo della sua
vita, all’inquisitore non pare che il sonno riesca ad abolire
il tempo. Dietro il sonno, accucciati, colpevoli, si celano i
sogni e poiché egli «non può spaccarle la testa per
vederle dentro ciò che pensa», ciò che sogna, proprio i
sogni, entro i quali si rifugia il dolce, struggente
sentimento della propria colpa, del proprio io vanamente
soffocato potrebbero diventare l’ultima vendetta contro di
lui. Il giudice vuol trasformarsi nel giudice supremo, in un
Dio a cui nulla è ignoto e che vede ciò che non può
essere visto nell’oscurità della coscienza. E poiché anche
Dio dimostra la sua impotenza, e, se il marito la
accecasse, ciò che gli occhi hanno veduto, i ricordi che la
donna ha ancora negli occhi, le resterebbero nella mente,
e, se le strappasse le labbra, il piacere, il sapore
rimarrebbero con le fino a morirne, fino a morire di questo
piacere, la parola ch’egli ha pronunciato – morire – diventa
l’unica via possibile, la sola condanna che può emettere
quel supremo tribunale della cui autorità l’uomo si sente
investito. La gelosia – aveva scritto Proust – non finisce

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