Page 18 - QUESTA SERA SI RECITA A SOGGETTO - PICCOLO TEATRO MILANO - STAGIONE 2015/2016
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GIOVANNI MACCHIA
meno una sola, piccola, aperta alla vista della campagna
e del mare lontano. Sarà anche la madre a farci sapere ciò
che la figlia vede di lassù, e ci dice cose che, se avesse
potuto parlare, la signora Frola, col pianto alla gola,
avrebbe detto sulla prigione della sua povera figliola.
Di quel paese, alto sul colle, la sventurata non vedeva che
i tetti delle case, i campanili delle chiese: tetti, tetti che
sgrondavano chi più chi meno, tesi in tanti ripiani, tegole,
tegole, nient’altro che tegole. Notava Proust che io
personaggi di Stendhal, Julien Sorel o Fabrizio del Dongo,
chiusi in una prigione situata in un luogo elevato,
dimenticavano le loro cure vane per vivere una vita
disinteressata e voluttuosa. Ma al povero personaggio di
Pirandello quell’altura, quella solitudine, quel silenzio,
quella segregazione non davano che un senso di
capogiro. Tutti quei tetti, dice la madre, come tanti dadi
neri, le vaneggiavano sotto, quando verso la sera poteva
affacciarsi a prendere un po’ d’aria a quella finestra, nel
chiarore che sfumava dai lumi delle strade anguste del
paese in pendio. Udiva nel silenzio profondo delle viuzze
più prossime qualche rumor di passi che facevano l’eco;
la voce di qualche donna che forse aspettava come lei;
l’abbaiare di un cane, con più angoscia, il senso dell’ora
del campanile nella chiesa più vicina. Ma perché
continuava a misurare il tempo quell’orologio? Esisteva
ancora il tempo? Tutto è vano e morto, dice la madre.
E proprio la madre, che dovrebbe essere lontana a
scontare la pena della sua colpa, prepara la grande scena
della tortura. Si fa scenografa, si fa regista.
La vestizione della condannata ha nel testo la stessa
importanza che nel Galileo di Brecht ha la vestizione del
Cardinale Barberini, accompagnato sulla scena dal
Cardinale Inquisitore. Egli viene abbigliato per l’imminente
conclave, ove verrà eletto papa sotto il nome di Urbano
VIII, ma via via che si veste, gli addobbi imponenti
conferiscono tetraggine a tutta la sua figura, e da quella
tetraggine nasce un avvertimento: che quel prigioniero
della scienza, tipo carnale, sanguigno, prossimo alla
capitolazione, «non deve essere torturato».
In Pirandello il procedimento della vestizione è opposto.
Si tratta di spogliare la condannata, non di vestirla.
Il trucco deve accentuare un’espressione di estremo
dolore, di fatica, di sacrificio. Via tutto il rosso della bocca,
perché la giovane non deve aver sangue nelle vene.
Bisogna segnare le pieghe agli angoli della bocca, perché
qualche dente a trent’anni può esserle caduto, e sulle
tempie i capelli diventeranno non bianchi, ma impolverati
di vecchiaia, spettinati perché il marito geloso non vorrà
certo che la moglie se li pettini, quei capelli.
E la svestiranno, le toglieranno il busto, perché appaia più
goffa, le metteranno l’una sull’altra la gonna e la casacca.
Le scivoleranno le spalle come a una vecchia.
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meno una sola, piccola, aperta alla vista della campagna
e del mare lontano. Sarà anche la madre a farci sapere ciò
che la figlia vede di lassù, e ci dice cose che, se avesse
potuto parlare, la signora Frola, col pianto alla gola,
avrebbe detto sulla prigione della sua povera figliola.
Di quel paese, alto sul colle, la sventurata non vedeva che
i tetti delle case, i campanili delle chiese: tetti, tetti che
sgrondavano chi più chi meno, tesi in tanti ripiani, tegole,
tegole, nient’altro che tegole. Notava Proust che io
personaggi di Stendhal, Julien Sorel o Fabrizio del Dongo,
chiusi in una prigione situata in un luogo elevato,
dimenticavano le loro cure vane per vivere una vita
disinteressata e voluttuosa. Ma al povero personaggio di
Pirandello quell’altura, quella solitudine, quel silenzio,
quella segregazione non davano che un senso di
capogiro. Tutti quei tetti, dice la madre, come tanti dadi
neri, le vaneggiavano sotto, quando verso la sera poteva
affacciarsi a prendere un po’ d’aria a quella finestra, nel
chiarore che sfumava dai lumi delle strade anguste del
paese in pendio. Udiva nel silenzio profondo delle viuzze
più prossime qualche rumor di passi che facevano l’eco;
la voce di qualche donna che forse aspettava come lei;
l’abbaiare di un cane, con più angoscia, il senso dell’ora
del campanile nella chiesa più vicina. Ma perché
continuava a misurare il tempo quell’orologio? Esisteva
ancora il tempo? Tutto è vano e morto, dice la madre.
E proprio la madre, che dovrebbe essere lontana a
scontare la pena della sua colpa, prepara la grande scena
della tortura. Si fa scenografa, si fa regista.
La vestizione della condannata ha nel testo la stessa
importanza che nel Galileo di Brecht ha la vestizione del
Cardinale Barberini, accompagnato sulla scena dal
Cardinale Inquisitore. Egli viene abbigliato per l’imminente
conclave, ove verrà eletto papa sotto il nome di Urbano
VIII, ma via via che si veste, gli addobbi imponenti
conferiscono tetraggine a tutta la sua figura, e da quella
tetraggine nasce un avvertimento: che quel prigioniero
della scienza, tipo carnale, sanguigno, prossimo alla
capitolazione, «non deve essere torturato».
In Pirandello il procedimento della vestizione è opposto.
Si tratta di spogliare la condannata, non di vestirla.
Il trucco deve accentuare un’espressione di estremo
dolore, di fatica, di sacrificio. Via tutto il rosso della bocca,
perché la giovane non deve aver sangue nelle vene.
Bisogna segnare le pieghe agli angoli della bocca, perché
qualche dente a trent’anni può esserle caduto, e sulle
tempie i capelli diventeranno non bianchi, ma impolverati
di vecchiaia, spettinati perché il marito geloso non vorrà
certo che la moglie se li pettini, quei capelli.
E la svestiranno, le toglieranno il busto, perché appaia più
goffa, le metteranno l’una sull’altra la gonna e la casacca.
Le scivoleranno le spalle come a una vecchia.
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