Page 8 - MISERICORDIA | PICCOLO TEATRO MILANO
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CONVERSAZIONE CON EMMA DANTE
con qualcosa di indecente, di volgare anche, che supera
il decoro, chiede di essere disturbante. È il concetto di
indecenza in senso artaudiano: Antonin Artaud teorizza
un teatro che deve necessariamente intrecciarsi con la
putrefazione, la decomposizione, con tutto ciò che
racconta qualcosa che ci fa paura. Del resto, a guidarci
è il fascino di stare giocando con l’eternità: fare teatro è
un modo per vivere il gesto artistico come qualcosa di
eterno, attraverso il quale si vuole fissare un istante, che
sappiamo essere in realtà perduto per sempre… Così
quell’indecenza e quel coraggio di raccontare il “basso”
e l’“alto” con identica forza e passione creano un
magnifico corto circuito tra sacro e profano, innescano
un dialogo tra miseria e meraviglia, bellezza e orrore.
Perché l’hai intitolato Misericordia?
Lo spettacolo racconta qualcosa che ha a che fare con
la pietà. Anna, Nuzza e Bettina, nonostante la
condizione tremenda e disagiata di marginalità in cui
vivono, scelgono di prendersi cura di un essere, Arturo,
che, per quanto speciale, è problematico, non è facile
da gestire, soprattutto in un tugurio misero e lercio come
quello in cui vivono. Eppure lo adottano, lo ricevono da
una di loro che muore ammazzata sotto le percosse di
un uomo, e lo crescono. Il loro gesto misericordioso è
molto forte: non agiscono per interesse, né per
egoismo; solo per amore. Allo stesso tempo, mi
piacerebbe che il pubblico avesse nello sguardo quella
misericordia di cui oggi si ha sempre più bisogno, che
assistesse a questa storia con un atteggiamento
accogliente. Le storie che racconto esistono davvero;
anche se ci paiono lontane, sono reali e abitate da
personaggi autentici. Gli animi si sono induriti, ma
fortunatamente esiste il teatro, che per me serve e
servirà sempre ad ammorbidire il cuore della gente, oggi
terribilmente chiuso. Qualche giorno fa, per strada, ho
visto un giovane buttato a terra, con delle coperte
addosso. Vicino a lui stavano il suo cane, pancia all’aria,
come fanno gli animali quando si espongono in cerca di
affetto, e un cartello con la scritta “ho fame”. Sono
passati un ragazzo e una ragazza, ben vestiti;
guardavano le vetrine, forse erano in giro per fare
shopping. Lui ha osservato la scena, si è voltato verso di
lei e ha detto, alludendo alla scena: “mangia il cane”.
Lei ha riso e sono passati oltre, continuando a guardare
le vetrine. È tanta durezza a spaventarmi: dobbiamo
continuare a fare questo nostro mestiere perché intorno
a noi si manifestano sintomi tremendi di una totale
mancanza di empatia e solidarietà, lo stesso
atteggiamento di chi vuole cacciare via le persone che
domandano aiuto.
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